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Gli otto “pensieri cattivi” del cristiano
La tradizione occidentale dei sette “vizi capitali” ha la sua origine nella riflessione dei Padri greci sui cosiddetti loghismoi, termine che potrebbe essere tradotto semplicemente con “pensieri” ma che nell’uso comune degli autori cristiani orientali prende il significato di “pensieri cattivi” o “pensieri appassionati”. Si tratta cioè di quegli atteggiamenti, quindi non solo immaginazioni della mente ma anche comportamenti, scelte, sentimenti, nei quali si concretizzano le “passioni” che rendono l’uomo schiavo, le tentazioni che lo distolgono dalla sequela di Cristo e lo legano a degli interessi egoistici. L’elenco tradizionale di questi loghismoi si trova nel Trattato pratico, un’opera morale scritta da Evagrio Pontico, vissuto a Costantinopoli, a Gerusalemme e infine in Egitto nella seconda metà del IV secolo. Evagrio elenca otto “pensieri cattivi”; è soprattutto ad opera di Gregorio Magno, vescovo di Roma sul finire del VI secolo, che questa lista si diffuse nel mondo latino, perdendo però un termine (a causa dell’unificazione di vanagloria e superbia) e cambiando la “tristezza” in “invidia”: abbiamo così la lista dei sette “vizi capitali” che noi conosciamo. Un’altra differenza dell’elenco occidentale rispetto a quello greco è costituita dall’ordine dei “vizi”: mentre quello originario segue una successione di tipo psicologico, iniziando cioè dalle tentazioni più “immediate”, legate ai bisogni primari della persona come il cibo o la sessualità, l’ordine accolto dal mondo latino è più “dogmatico”, cioè parte dai peccati più gravi dal punto di vista dottrinale, e quindi mette al primo posto la superbia.
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Vediamo dunque la lista degli otto “pensieri cattivi” stilata da Evagrio. Al primo posto, c’è la golosità, letteralmente nell’originale greco è la “follia del ventre”: riguarda il rapporto con il cibo, ma in generale l’atteggiamento “vorace” nei confronti delle cose e delle persone. La lussuria riguarda gli squilibri nel rapporto con la sessualità, soprattutto la tendenza a considerare il corpo proprio e dell’altro come una cosa, ad assolutizzare le pulsioni, gli istinti, senza valutarli e dominarli. L’avarizia è letteralmente, in greco, “amore per il denaro”: riguarda in generale il rapporto con le cose e la tendenza a lasciarci definire da ciò che possediamo, piuttosto che da ciò che siamo. La tristezza è un male quando distrugge l’uomo, quando si riferisce alla perdita di cose materiali o importanti secondo il mondo, non secondo Dio; essa, dice Giovanni Crisostomo, “spezza la volontà”; nella lista dei sette vizi capitali è diventata “invidia”, che è la tristezza per un bene che appartiene all’altro. L’ira riguarda il rapporto con gli altri, che può essere stravolto fino alla violenza negli accessi di collera. L’accidia è il disgusto, la voglia di non far niente, la negligenza, la mancanza di interesse; Evagrio la chiama “demone del mezzogiorno”, pensando alla situazione del monaco che, alzatosi presto al mattino, verso mezzogiorno comincia a sentire la stanchezza, l’insopportabilità del caldo e la fame (i monaci facevano un unico pasto verso le 3 del pomeriggio), la noia per il proprio lavoro; nella tradizione occidentale è diventata la “pigrizia”. Gli ultimi due loghismoi sono simili ma distinti: la vanagloria (letteralmente: “vantarsi per nulla”) è il farsi belli per cose che non valgono nulla, che possono anche essere importanti secondo il mondo (ricchezza, potere, successo) ma non davanti a Dio; la superbia (o “orgoglio”) letteralmente è il “super-apparire”, è il vanto per qualcosa che vale, che è significativo, ma come se venisse da me, mentre invece è dono di Dio. Come sintesi di questo ritratto dell’uomo peccatore, di queste diverse facce del male che c’è dentro di noi e nelle nostre azioni, anzi come radice di tutti i vizi, Evagrio e la tradizione orientale in genere pongono la filautìa, cioè l’amore di sé, inteso come egoismo, come pretesa di accontentare semplicemente se stessi, ribellandosi a Dio e dimenticando gli altri.
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Redazione Web: don Sergio, Achille, Dario
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