Anno 2000
Numero 7 - Maggio 2000
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RACCONTARE STORIE
Rimaniamo tutti a bocca aperta davanti a chi ci
racconta la sua storia. Già il modo di parlare è diverso rispetto a quando si tratta un argomento sportivo. Ci
si commuove, si usano le mani, si sorride, si guarda altrove ricercando nel passato delle emozioni e dei
particolari. C’è un atteggiamento specifico proprio perché si sta parlando di sé, delle proprie esperienze,
dei propri sogni. E anche quando si ripensano dolori e guai, si ha oramai la capacità di vederli con un occhio
diverso. Questi momenti in cui si racconta non sono numerosi e soprattutto nascono quasi magicamente: una sera
davanti al camino, un giorno su una sedia della chiesa, un pomeriggio sotto una pianta, una mattina mentre si
fanno due passi. Le condizioni esterne aiutano molto l’inizio di una comunicazione. Ma sono le persone a
facilitare maggiormente il racconto delle proprie storie. Si apre l’album del passato con poche persone, spesso
con una sola. E mentre ci si esprime si è in grado di capire meglio, di comprendere cosa era stato, di criticare
delle posizioni avute, di esultare per alcune sensazioni. Avendo avuto in queste settimane l’opportunità di
rivedere amici dopo tantissimi anni, mi rendo conto di come, in un certo clima, possano emergere dei particolari
stranissimi, quasi dimenticati.
E’ anche vero che per raccontare occorre aver fatto un percorso di vita intenso e ricco. Non credo che possa
raccontare molto chi ha scelto una vita dedita unicamente a soddisfare i propri bisogni materiali: da quelli
economici a quelli sessuali. L’investimento fatto su valori forti (non solamente cristiani) permette di far
uscire quei ricordi che sono in fondo la narrazione di noi stessi, del nostro volto, della nostra personalità.
Vale il detto antico: "Nessuno dà ciò che non ha": non si può regalare il racconto della propria vita
se coronata di cose effimere e banali.
L’ascoltatore che ha la fortuna di vedere le mani, di ascoltare il tono della voce, si ritrova a bocca aperta,
quasi in silenzio, non volendo interrompere il susseguirsi delle parole. Non si permette di interferire con la
famosa frase: "Ma anche a me è successa la stessa cosa". Eventualmente espone delle piccole domande
quasi ad agevolare quello scavare in profondità, tra le soffitte dei ricordi. Succede che il narratore e i pochi
ascoltatori si sentano uniti della stessa commozione o nella stessa gioia. Quando poi ci si lascia ("ahimè,
guarda come è tardi"), ci si accorge che non si è più come prima, perché ognuno ha depositato nel cuore
dell’altro qualche cosa di sé. Sono momenti in cui si impara il valore della comunicazione vera tra persone,
arrivando a non sopportare più il parlare inutile, la banalità degli argomenti, l’esibizionismo di tante
chiacchierate o il perditempo di molte serate. Quando poi questo raccontare avviene a proposito della personale
storia di fede e di quel rapporto provvidenziale che esiste con il Padreterno, allora il grado di commozione
aumenta proprio perché si riesce a dire qualcosa di Dio che nessun libro di teologia contiene. Infatti è
avvertire che, mentre parli, anche Lui è seduto attorno a quel camino, anche Lui contento di ascoltare. Le cose
belle, infatti, hanno bisogno di poco, talvolta del semplice raccontare.
Don Norberto
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